giovedì 11 ottobre 2007

IL GRANDE SPECCHIO...continua...

Ho parlato l'ultima volta di uno scrittore inglese dell'800 che aveva la straordinaria capacità di fissare per sempre ciò che lo attorniava attraverso lo specchio impietoso dell'ironia...questo autore era Charles Dickens...

vorrei adesso ripartire dal significato della parola stessa...IRONIA...

ironia è contemporaneamente un tema, una struttura discorsiva ed una figura retorica.

In senso freudiano l'ironia consiste nell'esprimere idee che violano la censura dei tabù.
In alcuni casi consiste nel far intendere una cosa mediante una frase di senso esattamente opposto.
La parola greca eirōneía si riferisce appunto ad una sorta di dissimulazione, che implica l'assunzione di una posizione scettica, un atteggiamento di rifiuto del dogma e di ogni convinzione che non basi la sua validità sulla ragione.

ma l'IRONIA è anche una figura retorica...nel caso di Dickens un'iperbole...
l'iperbole sviluppa un ragionamento o una situazione finché non appare evidente la loro assurdità, e questo nelle pagine di Dickens consiste in un'accumulazione di dettagli, un'enumerazione di precisazioni che, invece di mostrare il valore di qualcosa, lo discreditano.

Un esempio assolutamente puntuale di come l'ironia sia un'iperbole lo ritroviamo anche e stupendamente nelle pagine dell'opera forse più famosa di Carlo Emilio Gadda...La cognizione del dolore...

Gadda usava la parola, questo strumento pazzesco, così esatto ed implacabile, per divertirsi, e lo usava per fare a pezzi delle fette di umanità che odiava perchè le riteneva mortificanti per se stessi e per gli altri, e con la parola fatta bisturi li faceva sapientemente a pezzi...li inforcava come gli insetti con gli spilloni...nei musei...per esporli al pubblico ludibrio...

in questo libro se la prende con la bella società milanese e la esamina in un'occasione "speciale"...quando si reca a pranzo al ristorante...tutti belli...eleganti...impeccabili...manichini impagliati...e li segue per tutto il pranzo...dall'ossobuco alla mela...ma è nel loro ultimo gesto che li becca per sempre...

"Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che da lunga pezza oramai, cioè fin dall'epoca dell'ossobuco, si era a mano a mano andato accumulando nella di loro persona...ed erano appunto in procinto di addivenire a quell'atto imprevisto, e però curiosissimo, ch'era così instantemente evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d'argento: poi, dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d'oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, richiuso nel frattempo dall'altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor fronte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n'erano già stati tutti spiccati, per il che, con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini dell'Io. E derelitta, ecco giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua immagine del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unità, strofinavano, accendevano; spianando a serenità nuova la fronte, già così sopraccaricata di pensiero: (ma pensiero fessissimo, riguardante per lo più articoli di bigiutteria in celluloide). Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? oh! se ne scordavano all'atto stesso; per aver motivo di rinnovare la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli altri tavoli, aspiravano la prima boccata di quel fumo d'eccezione; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco, stitico.
Così rimanevano: il gomito appoggiato al tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l'ossobuco.
La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell'Aida o il toreador della Carmen.
Così rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne?Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori."

C.E. Gadda, La cognizione del dolore


Nessun commento: